
Ebbene sì, non ero mai entrata in un caseificio. O meglio, non ne avevo mai visto il backstage, se non con qualche anteprima rubata qua e là durante i miei acquisti caseari: il magazzino di stagionatura, con le sue verticali di forme a perdita d'occhio; il casaro in grembiule e galosce bianche; rumori e vapore acqueo che fuoriescono da una porta semi-aperta...
Questa volta sono io a varcare quella soglia, ospite della Latteria Santo Stefano, dove si produce Parmigiano Reggiano dal 1922.
All'interno mi sorprende il rumore: macchinari in azione, pompe, carrelli spinti nell'una e nell'altra direzione con a bordo le fascere vuote, prima, le forme appena plasmate, poi.
Certo, mica potevo aspettarmi un silenzio rotto soltanto dal tintinnare di secchi... In realtà non sapevo bene cosa aspettarmi o forse le mie aspettative erano fuorviate da un bucolico ricordo d'infanzia, quello di una compaesana che preparava il formaggio nel suo piccolo laboratorio casalingo.
Nel caseificio parte del lavoro è meccanizzata, ma una quantità di cose si fa rigorosamente a mano. Proprio le mani convogliano la mia attenzione: mani immerse nella cagliata, mani che spingono, con movimento ritmico, lo spino, mani che legano le gemelle avvolte nel telo di lino o che, grondanti di latte, si appoggiano sul bordo della caldaia.

Tra i gesti che mi colpiscono di più c'è senz'altro quello di affondare la mano nella cagliata per verificarne la consistenza: quella giusta prevede grani della dimensione di un chicco di riso e finché non la si raggiunge si continua a rompere la cagliata con lo spino.
Questa sorta di carezza, ripetuta più e più volte, sembra condensare in un'immagine la cura impiegata in questi gesti dalla storia millenaria.

Perdonate il pathos, ma queste cose mi intrigano più di una cena romantica...che ci posso fare?
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